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Bentivogli: il sindacato deve puntare sulla crescita del welfare integrativo per il benessere dei lavoratori – Kongnews.it

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KongNews .it,  giovedì 15 ottobre 2015

“Il sindacato deve puntare sulla crescita del welfare integrativo per il benessere dei lavoratori”

Intervista a Marco Bentivogli, Segretario Generale Fim Cisl

di Filippo Di Nardo

La piena diffusione dei piani di welfare aziendale presuppone un ruolo attivo e convinto dei sindacati, i quali dovranno abituarsi sempre di più a contrattare non solo la componente monetaria del salario ma anche quella cosiddetta “in natura”, inerente una serie di servizi, prestazioni sociali e più in generale il benessere dei lavoratori. Un nuovo ruolo che presuppone nuove consapevolezze. Il sindacato è pronto? Abbiamo sentito Marco Bentivogli, leader dei metalmeccanici della Cisl, il quale è particolarmente sensibile e attento alle rinnovamento dell’azione sindacale.

In questi ultimi anni, soprattutto a ridosso della lunga crisi economica, in molti accordi aziendali è stato introdotto, o si è sviluppato, il capitolo del welfare aziendale, ossia la componente della retribuzione in natura, e in particolar modo riguardante prestazioni e servizi sociali, di sostegno al poter d’acquisto e alla conciliazione dei tempi vita-lavoro. Quale la molla che innescato una crescita così repentina soprattutto negli ultimi anni?

 

La molla è stata la consapevolezza che le disuguaglianze e il benessere dei lavoratori non possono essere declinate in termini di reddito. Si è visto nel welfare aziendale la possibilità di costruire risposte concrete ai bisogni delle persone con nuove forme che consentano economie di scala tali da garantire l’abbassamento della soglia di accesso a servizi come a beni e opportunità altrimenti di difficile fruizione.  Nei metalmeccanici stiamo recuperando molto velocemente i ritardi che c’erano nella nostra categoria dovuti all’ostilità della Fiom, prima alla previdenza integrativa, poi alla sanità integrativa. Nel 1997 accettarono obtorto collo l’introduzione del fondo pensione integrativo Cometa nel contratto nazionale.  La loro riserva era ispirata ad un timore di smantellamento del sistema previdenziale pubblico. Nel 2009 con la nascita del fondo sanitario integrativo Metàsalute, la storia si ripete: la Fiom non accettò di prenderne parte, accusandoci di “smantellare il servizio sanitario nazionale”. Successivamente, però, a livello locale e nei contratti delle piccole e medie imprese hanno firmato ovunque per la costituzione di fondi di categoria. Dal 2001 abbiamo scelto di non aspettare più e di praticare l’innovazione su questi temi recuperando ritardi significativi: il prezzo pagato è stato che su 6 contratti nazionali, la Fiom ne ha firmati solo due. Oggi la Fiom nel rapporto con alcuni gestori si è smarcata dal vincolo ideologico sostenendo alcuni fondi sanitari territoriali o nelle piccole e medie imprese. 

Sta cambiando il patto sul lavoro: stiamo passando da uno scambio lavoro-retribuzione ad uno più ampio, ossia, lavoro-benessere. Il perno intorno al quale ruota il nuovo patto è lo sviluppo del welfare aziendale. Quali sono le implicazioni di tale cambiamento per i lavoratori?

Un lavoratore già oggi valuta positivamente un’azienda, non solo in base al salario, ma anche al clima e appunto al benessere più generale. Come dicevo le condizioni di benessere, solo in un’ottica economicista derivano dalle mere condizioni reddituali: sanità, previdenza, consumi sostenibili, formazione e studio possono diventare opportunità accessibili per fasce di lavoratori che oggi ne sono privati o esclusi per aspetti non esclusivamente economici, grazie alla sviluppo del welfare aziendale. In realtà per molti aspetti stiamo torna alle origini. Le vecchie mutue sanitarie, il social housing le hanno inventate le grandi imprese. Ricordate il villaggio Falck a Sesto San Giovanni? E le colonie estive per i figli dei dipendenti, le borse di studio?. Certo è che il Welfare pubblico deve rimanere ad accesso universalistico. Il welfare integrativo aziendale in rete con quello di prossimità, invece, può rappresentare una dimensione forte di risposta ai bisogni sociali, sia tradizionali che nuovi, in una logica integrativa, sapendo che lo Stato da solo non è più in grado di farcela,

Si pensi, poi, ai problemi di sovraindebitamento dei lavoratori stessi, per scarsa consapevolezza delle risorse finanziarie disponibili e un modello sociale che spinge a indebitarsi senza programmare lo spazio necessario alla nascita di un figlio, di un’eventuale malattia, delle difficoltà della vecchiaia ma anche le necessità di essere forti nel mercato del lavoro potendo cogliere le opportunità di studio e formazione. Un sistema di welfare integrativo può essere utile a orientare l’impiego delle proprie risorse ad un benessere reale e a scoraggiare l’inseguimento di una scheda di consumi insostenibile.

 

Qual è il ruolo che può giocare il sindacato nello sviluppo del welfare nell’ambito della contrattazione aziendale? 

Solo dove non c’è consapevolezza si considerano sullo stesso piano le prestazioni di welfare fruibili per scelta unilaterale dell’azienda con quelli scaturiti da accordi con chi rappresenta i lavoratori.  Il nostro ruolo si basa sul rilancio dell’attuale sistema di welfare integrativo ma è necessario intervenire sulle sue debolezze strutturali, sulle sue contraddizioni e sulle sue fragilità. Il fulcro del sistema è l’autonomia negoziale che negli anni ha costruito esperienze importanti di previdenza complementare e di sanità integrativa. La nostra sfida è andare insieme oltre l’attuale welfare integrativo verso un modello più inclusivo, più efficace ed esteso di protezione sociale. I giovani non aderiscono alla previdenza complementare, inventata proprio per loro, la rete di ammortizzatori sociali si è estesa ma è più “corta”. Credo che ci siano spazi per fondi bilaterali anti-crisi. Bisogna estendere, come in alcune aziende stiamo facendo, anche a nuovi ambiti la rete del welfare di prossimità che possiamo mettere in campo. A questo proposito dobbiamo avere la capacità di collegare il lavoro ad altre dimensioni di welfare, nate in questa fase con cui rendere la protezione alla persona più forte e più foriera di opportunità di promozione umana.

 

Siamo in un contesto di welfare mix: al fianco delle prestazioni pubbliche sono cresciute negli anni quelle di natura privata e contrattuale, in una logica di integrazione, e che hanno riguardato soprattutto la previdenza e la sanità, oltre altri ambiti. Rimane scoperto il capitolo dei nuovi bisogni sociali come l’assistenza agli anziani e ai familiari non autosufficienti, che oggi ha trovato risposte soprattutto nel cosiddetto welfare informale e nel lavoro nero, mentre in altri paesi europei la soluzione è stata trovata anche in ambito di welfare aziendale. E’ auspicabile anche per noi una simile prospettiva?

Attraverso un accordo aziendale tra datore di lavoro e compagine sindacale, si mira a fornire ai dipendenti dell’azienda beni, servizi ed opportunità in molteplici forme, senza che questi rappresentino una diretta corresponsione di denaro. Questa infatti sarebbe gravata da oneri fiscali tali da renderla troppo onerosa per il datore di lavoro e poco percepibile dal dipendente. Per questo motivo attraverso gli accordi di Welfare aziendale si propongono alla comunità dei dipendenti beni e servizi graditi quali ad esempio: congedi, orari flessibili, part-time, banca delle ore, telelavoro, asili, scuole, tirocini, borse di studio, assistenza sanitaria, master, corsi linguistici, campus estivi, mensa, fondo pensioni, trasporto pubblico, e molti altri erogati in maniera diretta. Tra questi, un capitolo di sviluppo è certamente quello dei servizi alla persona, in particolare di assistenza alle persone anziane, in un’ottica di conciliazione dei tempi di vita con quelli del lavoro e della famiglia.

 

La normativa di riferimento sul welfare aziendale è di alcuni decenni fa, pensata in un momento storico diverso in cui non si pensava ad una crescita così sostenuta e rapida di questo strumento. E’ arrivato il momento di aggiornare la normativa?

Assolutamente sì. La normativa disincentiva il welfare sia dal punto di vista fiscale sia non parificando il welfare negoziale a quello profit. La normativa sui fondi pensione di questo governo, poi, non solo ha messo la previdenza complementare sullo stesso piano di quella profit ma con la possibilità di conferire il tfr in busta paga, ha agito in direzione opposta all’interesse dei giovani. E’ singolare che un governo di giovani faccia finta di non sapere che ci saranno intere generazioni di poveri quando le prime generazioni andranno in pensione dopo il 2030 con una pensione da previdenza pubblica attorno al 46% dell’ultimo stipendio. Senza la previdenza complementare, significa passare dalla retribuzione piena a meno della metà, dopo 45 anni di lavoro regolare e continuativo. In questo modo si ricadrà velocemente, dopo una vita al lavoro, sotto la soglia di povertà. E’ inaccettabile

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