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Giulio Regeni e le lotte sindacali in Egitto

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di Gianni Alioti


Sono passati due anni da quel 25 gennaio 2016 in cui Giulio Regeni scompare in Egitto. In quel periodo il giovane italiano sta svolgendo una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani presso l’Università Americana del Cairo. Giulio è candidato a un dottorato di ricerca al Girton College dell’Università di Cambridge (UK). Il 3 febbraio è trovato morto. «Barbaramente torturato e poi ucciso» (1).

Il giorno nel quale Giulio Regeni viene rapito è il quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir. L’inizio delle rivolte anti- Mubarak. Una decina di giorni prima del suo rapimento la Near East News Agency (Nena News) pubblica, con lo pseudonimo Antonio Drius, un articolo di Giulio: «L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale» (2) . L’articolo racconta di una assemblea di coordinamento tra sindacati indipendenti convocata al Cairo venerdì 11 dicembre 2015 dal CTUWS (3). E’ dal mese di ottobre, che l’Egitto è nuovamente attraversato da un’ondata di scioperi e proteste dei lavoratori. Molti settori della popolazione sono stanchi dello status quo. A causa dell’aumento dei prezzi e la crisi economica. Operai e dipendenti pubblici, studenti e venditori ambulanti, ma anche medici e imprenditori, non sopportano più questa situazione. Il malcontento diffuso stenta però a tradursi in movimento organizzato. Non solo per la frammentazione sociale e sindacale, ma per la militarizzazione crescente dello spazio pubblico. Facile associare le forme di dissenso e di azione diretta sindacale al “terrorismo”. E giustificare così la violazione di diritti fondamentali.

Per queste ragioni ha dello straordinario – per Giulio Regeni – il numero di attiviste e attivisti sindacali dei più svariati settori economici (dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale) giunti da tutto l’Egitto (Sinai, Alto Egitto, Delta, Alessandria e Cairo) per questa assemblea. L’occasione è data da una nuova circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il Governo e l’ETUF (4), la confederazione sindacale controllata dallo Stato. Il fine esplicito è contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori. La circolare rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali (dal diritto di sciopero alla contrattazione collettiva).

«[…] Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di agibilità politica. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento (5), di cui il CTUWS è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione. Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la EDLC e la EFITU) (6) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013. Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza». (7)

«[…] A dicembre in diverse regioni dell’Egitto, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche. Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak. Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione. Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito a metà dicembre al Cairo. Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan “Pane, Libertà, Giustizia Sociale” non sono riuscite sostanzialmente a intaccare. L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento. Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla “guerra al terrorismo”, significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile».

Giulio Regeni, quando scrive queste parole, non immagina certo, che sarebbe stato lui stesso vittima di questa brutale repressione. Probabile che fosse cosciente di essere seguito e controllato mentre svolgeva le sue ricerche. Un’attenzione identica riservata in Egitto agli attivisti sindacali e dei diritti umani, ai dissidenti politici, ai giornalisti. Si saprà dopo che, in sua assenza, la sua casa al Cairo è perquisita. E mentre partecipa alle riunioni dei sindacati indipendenti è, sicuramente, fotografato e monitorato. A un certo punto scompare. Un nome tra centinaia di altri desaparecidos. Per poi essere ritrovato, come molti di loro, senza vita e con i segni inconfutabili di torture prolungate. Una firma che gli egiziani conoscono bene, quella dei servizi di sicurezza.

La sua morte, per le reazioni in Italia e sul piano internazionale, accende i riflettori sul regime militare al potere in Egitto. E il metodo delle sparizioni forzate, praticato in maniera sistematica, non può essere più nascosto. Il quadro documentato da Amnesty International – attraverso fatti e testimonianze – risulta inquietante (9). In media tre-quattro persone al giorno sono vittime di sparizioni forzate nel paese. Una strategia mirata e spietata dell’Agenzia per la sicurezza nazionale guidata dal ministro degli interni egiziano Magdy Abd el-Ghaffar.

Se ad innescare la rivoluzione del 2011 sono i giovani bloggers, a mobilitare di peso le masse sono prima le organizzazioni autonome dei lavoratori (embrione dei sindacati indipendenti) e poi i Fratelli Musulmani. L’esercito e i servizi di sicurezza, gli stessi di sempre dai tempi di Hosni Mubarak, hanno imparato la lezione. Dopo la deposizione dell’ex-presidente Morsi nel 2013 la repressione si abbatte durissima su entrambi. I sindacalisti fanno paura al regime militare egiziano di al-Sisi perché sono considerati i soli, insieme agli islamisti, capaci di riempire le piazze.

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La profonda insofferenza nei confronti delle mobilitazioni dei lavoratori e dei sindacati liberi è, in realtà, il filo rosso che unisce finora tutti i Governi. Cacciato Mubarak sono continuati gli attacchi al diritto di sciopero e alle libertà sindacali. Sia con il governo Morsi, sia con quello di al-Sisi. Un vero e proprio indicatore della loro natura autoritaria e antidemocratica. Malgrado i sogni libertari che riempivano piazza Tahrir durante la rivoluzione egiziana del 2011.

E nonostante la politica del pugno di ferro del regime di al-Sisi si sia abbattuta contro i sindacati indipendenti dalla primavera dello scorso anno, il 2015 fa registrare ben 1.117 casi tra sit-in, scioperi e manifestazioni. E nei primi quattro mesi del 2016 (ultimi dati disponibili) scioperi e proteste sono cresciute in Egitto di un ulteriore 25 per cento rispetto all’anno precedente. E’ questo movimento di lotta – in condizioni proibitive – che suscita la curiosità e la passione di Giulio Regeni. La galassia di sigle sindacali autonome (oltre settanta) fiorite all’indomani della cacciata di Mubarak e sopravvissute al pugno di ferro del regime, è – infatti – il principale oggetto di studio del dottorato di ricerca che Giulio sta compiendo. Per questo contatta e intervista decine di operai e sindacalisti. E’, pertanto, difficile negare che la morte di Giulio Regeni, così come gli ultimi anni della sua vita, s’intreccino con le dinamiche del movimento sindacale egiziano.

«Vedere gli operai esprimersi è a dir poco disturbante per un regime che si era abituato all’assenza di voci sindacali autonome: ogni volta che gli operai si esprimono si scatena un conflitto, chi governa sa bene che gli scioperi hanno giocato un ruolo importantissimo nella preparazione della rivoluzione del 2011, sono state manifestazioni come quella “dei secchi” in un piccolo villaggio contadino senza acqua ad incoraggiare i poveri a scendere in strada contro la dittatura» (10).                                                                 

A parlare è Kamal Abbas. Co-fondatore e coordinatore generale del CTUWS, operaio in una grande acciaieria dal 1975. Tra i maggiori organizzatori sindacali egiziani, arrestato più volte durante il regime di Mubarak, tra i protagonisti della rivoluzione in piazza Tahrir.

Se è vero che il giro di vite sulle libertà sindacali e il diritto di sciopero non fermano il movimento dei lavoratori, chi protesta deve fare i conti con le misure repressive del regime militare al potere.

Gli ultimi a farne le spese sono ventisei operai dei Cantieri Navali di Alessandria, arrestati con l’accusa di “incitamento allo sciopero”. I fatti risalgono al 22 e 23 maggio quando partecipano ad un sit-in pacifico sul posto di lavoro, insieme alla maggior parte dei loro 2.500 colleghi. Le principali richieste dei lavoratori sono l’innalzamento dei salari al livello del salario minimo nazionale di 1.200 lire egiziane al mese (circa 120 euro al cambio attuale), il versamento dei dividendi arretrati sui profitti dell’azienda, dei bonus annuali per il mese di Ramadan e l’assicurazione sanitaria, oltre alla richiesta di far ripartire la produzione su alcune delle linee dell’impianto.

I ventisei operai dei cantieri navali, detenuti in condizioni orribili nelle carceri egiziane, sono sotto processo dal 18 giugno presso una corte militare, in aperta violazione delle convenzioni della Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), di cui l’Egitto è firmatario. Le convenzioni internazionali affermano il diritto dei lavoratori a scioperare e protestare pacificamente, il diritto a organizzarsi sindacalmente e difendere collettivamente le proprie condizioni di lavoro.

La Alexandria Shipyard Company è dal 2007 di proprietà Ministero della Difesa. I militari hanno interessi diretti non solo nell’economia bellica, ma anche in molti settori della produzione industriale civile, delle infrastrutture, dell’edilizia ecc. In Egitto non solo il potere politico, ma anche quello economico si concentra nelle mani di Esercito e Servizi.

Pertanto, come afferma l’attivista dei diritti umani Tamer Wageeh: «[…] quando i centri capitalisti combaciano con i centri della sicurezza danno vita ad uno Stato oligarchico, il cui principale interesse è rubare e corrompere» (11). Facendo felice (aggiungo io), nel caso egiziano, la nomenclatura politica e quella corporativa dei paesi “democratici” europei, principali soci in affari del regime al potere.

Sebbene anche i sindacati indipendenti fossero in qualche modo allineati con le forze armate nel movimento del 30 giugno 2013 contro il presidente Mohamed Morsi dei “Fratelli Mussulmani”, la Corte Suprema del Cairo deciderà nei prossimi mesi se è giunto il momento di metterli fuori legge. Sarebbe non solo una palese violazione delle Convenzioni 87 e 98 dell’ILO ratificate dall’Egitto. Ma violerebbe esplicitamente la nuova Costituzione egiziana del 2014. L’articolo 76 stabilisce, infatti, il diritto di istituire organizzazioni sindacali su basi democratiche e di esercitare liberamente l’attività di tutela dei diritti dei lavoratori. A sollevare il caso sulla “illegalità” dei sindacati indipendenti, che rappresenterebbero una “minaccia alla sicurezza nazionale”, è l’ETUF la confederazione sindacale egiziana controllata dallo Stato. Ne è prova la nomina diretta dei suoi suoi dirigenti da parte del ministro del Lavoro e del presidente Abdel Fattah al-Sisi.

Un leader dei lavoratori Kamal al-Fayoumi, licenziato nel 2015 dal suo lavoro presso l’azienda tessile Misr Spinning and Weaving Company a Mahalla, ha dichiarato: «Abbiamo preso parte alle proteste del 30 giugno, con la speranza di realizzare la giustizia sociale. […] Dopo che ci siamo liberati dai trafficanti di religione [Fratelli Musulmani], siamo tornati ai precedenti trafficanti che esistevano sotto Mubarak. Noi speravamo, come abbiamo fatto durante il 25 gennaio 2011, nelle richieste rivoluzionarie di pane, libertà e giustizia sociale – ma nessuna di queste richieste è stata realizzata. […] Invece quello di cui ci siamo accorti è che decine di sindacalisti indipendenti, attivisti operai e organizzatori erano licenziati dai loro posti di lavoro, semplicemente perché hanno parlato pubblicamente per i loro diritti o si sono alzati in piedi contro la corruzione nei loro luoghi di lavoro. […] Come posso avere speranza per il futuro, quando vedo lavoratori civili sotto processo davanti a un tribunale militare, perché hanno pacificamente chiesto i loro diritti?» (12).

Chi, invece, non ha perso del tutto la speranza è Tamer Wageeh che conclude la sua intervista a Chiara Cruciati su Nena News, con queste parole: «Lo Stato assedia il movimento e il movimento è in declino. Ma le iniziative dei sindacati – medici, giornalisti, ingegneri – sono catalizzatori della lotta. Anche se sembra che stiano fallendo, sono esplosioni continue che spingeranno al cambiamento» (13).

Dello stesso avviso sembra essere il blogger e giornalista egiziano Abdelrahman Mansour che dal golpe militare del 2013 vive all’estero e oggi studia all’Università dell’Illinois. In un’interessante intervista rilasciata sempre a Chiara Cruciati e pubblicata su Nena News il 5 luglio 2016, Mansour afferma: «Nel 2010 eravamo tutti Khaled Said, ora siamo tutti Giulio Regeni. Le nuove forme di resistenza operano sottoterra, per questo vengono sottovalutate. Ma faranno cadere il regime. […] Le rivoluzioni arabe in questo senso non sono altro che parte di un fenomeno più ampio, globale, contro regimi diversi dalle Americhe all’Europa al Medio Oriente. Il movimento egiziano è ancora vivo, in fieri, parte integrante delle proteste dei giovani in paesi diversi contro decenni di ingiustizie mascherate con la definizione occidentale del concetto di democrazia. Da noi quel concetto si traduce nel sostegno ad al-Sisi che riceve armi in abbondanza e moderni sistemi di spionaggio» (14).

Anche Alaa al Aswani, lo scrittore arabo più di successo degli ultimi decenni, è tra coloro che non hanno perso la speranza. Intervistato da Michele Giorgio per Nena News ha dichiarato:

«[…] Tante cose non sono andate per il verso giusto. Però la storia ci insegna che una rivoluzione ha bisogno di tempo per affermarsi, per trasformare uno Stato. Una rivoluzione si fonda sul coraggio e il cuore dei rivoluzionari mentre un regime ha tutto dalla sua parte: potere, soldi, forza. E se la rivoluzione non riesce a scardinare completamente tutto questo, il vecchio regime riemerge come una tigre ferita. Dobbiamo tenere presente che i protagonisti del 2011 non sono stati in grado di completare la rivoluzione e di contrastare la controrivoluzione scattata dopo l’uscita di scena di Mubarak. Però non è finita e quanto abbiamo vissuto cinque anni fa a piazza Tahrir può e deve ripetersi fino al traguardo» (15).

Sebbene al-Sisi goda ancora di consenso di una parte della popolazione, sempre di meno ogni giorno che passa, a differenza di Mubarak non ha un partito politico alle spalle. …E come sostiene Abdelrahman Mansour: «[…] La sua legittimità si fonda solo sull’esercito e il suo modo di governare si basa sulla mera ricerca di obbedienza, come se governasse una caserma» (16).

In realtà l’aiuto maggiore al suo regime gli deriva dal sostegno degli Stati della regione del Golfo (in particolare l’Arabia Saudita) e dai paesi occidentali (in particolare quelli europei). Ciò malgrado la situazione dei diritti umani in Egitto stia peggiorando. Riccardo Noury – portavoce di Amnesty Italia – denuncia, in un’intervista sul caso Regeni, il paradosso europeo. «[…] il paese isolato non è l’Egitto ma l’Italia. Se l’Unione Europea fosse davvero solidale avremmo 27 ambasciatori ritirati e non uno. L’Egitto è stato abile nel mantenere saldo il suo ruolo di partner fondamentale nel dossier Libia, nel dossier immigrazione, nel dossier terrorismo, mettendoli in contrasto con il caso Regeni. La richiesta della verità è considerata quasi un fastidio, un ostacolo» (17).

Per questa ragione secondo Amnesty è necessaria l’internalizzazione del caso Giulio. «[…] Non si tratta di un’alternativa all’inchiesta italiana, ma una forma di pressione complementare. Come l’assunzione delle misure previste dalla Convenzione Onu sulla tortura o commissioni di inchiesta e risoluzioni dell’Onu che abbiano un peso almeno morale. Che dicano, cioè, che i diritti umani in Egitto non interessano solo la famiglia Regeni, Amnesty o milioni di cittadini italiani» (18).

Dello stesso avviso Mansour «[…] La morte di Giulio ha acceso l’attenzione internazionale. Quando penso a lui, penso a Khaled: entrambi morti perché cercavano la verità (Giulio sui sindacati, Khaled aveva un video sul traffico di droga in mano a dei poliziotti) ed entrambi assomigliavano a tantissimi ragazzi che nel mondo lottano contro una qualche forma di ingiustizia. Come nel 2010 eravamo tutti Khaled Said, ora siamo tutti Giulio Regeni» (19).

Per queste ragioni, Amnesty sostiene che debba esserci il coraggio da parte del nostro paese e della comunità internazionale di due azioni forti: «[…] Dichiarare l’Egitto paese non sicuro e pretendere la scarcerazione di tutti gli attivisti per i diritti umani e la fine della persecuzione giudiziaria di gruppi e singoli. In secondo luogo, sospendere il trasferimento di armi e software di sorveglianza all’Egitto» (20).

Al contempo il sindacalismo internazionale (e nello specifico quello italiano) deve essere capace di mobilitarsi in solidarietà e a sostegno dei lavoratori egiziani e del sindacalismo libero e autentico. E’ la forma più coerente con cui ricordare la figura del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni e continuare l’impegno insieme alla sua famiglia affinché, sul suo atroce assassinio di Stato, venga fatta verità e giustizia!

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(1) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016

(2) Antonio Drius, “L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale”, Nena News 14 gennaio 2016

(3) Center for Trade Unions and Workers Service, fondato nel 1990.

(4) Egyptian Trade Union Federation, fondata nel 1957 è l’unica confederazione sindacale legalmente riconosciuta fino alla rivoluzione del 2011. Dichiara 6 milioni di iscritti, ma risulta scarsamente rappresentativa.

(5) Si stima che l’insieme dei sindacati indipendenti in Egitto, nel momento della loro massima espansione, abbiano coinvolto circa 25 milioni di operai e impiegati.

(6) Egyptian Democratic Labor Congress (EDLC) e Egyptian Federation of Independent Trade Unions (EFITU), nate rispettivamente nel 2013 e 2012.

(7) Antonio Drius, L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale, Nena News 14 gennaio 2016

(8) Antonio Drius, L’Egitto degli scioperi cerca l’unità sindacale, Nena News 14 gennaio 2016

(9) Egitto: «Ufficialmente tu non esisti», rapporto di Amnesty International.

(10) Francesca Paci, I sindacalisti fanno paura al regime egiziano perché riescono a riempire le piazze, La Stampa, 7 febbraio 2016

(11) Chiara Cruciati, Tre anni dopo: dal golpe alla protesta, Nena News, 2 luglio 2016

(12) Jano Charbel, June 30, 3 years on: Independent labor movements suffer more losses than gains, Mada Masr, 3 July 2016

(13) Chiara Cruciati, Tre anni dopo: dal golpe alla protesta, Nena News, 2 luglio 2016

(14) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016

(15) Michele Giorgio, Alaa Al Aswani: «Alziamo la voce contro il regime di al Sisi», Nena News, 16 aprile 2016

(16) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016

(17) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016

(18) Chiara Cruciati, Sette mesi e su Giulio l’Italia va all’indietro, il manifesto, 25 agosto 2016

(19) Chiara Cruciati, “Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi»”, Nena News, 5 luglio 2016

(20) Chiara Cruciati, Abdelrahman Mansour: «Con l’arte dell’assenza abbatteremo al-Sisi», Nena News, 5 luglio 2016