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Contro i cialtroni dell’acciaio

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di Marco Bentivogli

Mi occupo di Siderurgia dal 2008, l’anno precedente è stato un anno importante per il settore, perché fu l’anno record per la domanda d’acciaio a livello globale. La domanda di questo metallo è un elemento cruciale perché è un buon indicatore della salute dell’economia in quanto riflette la domanda dei settori consumatori, automotive, elettrodomestico, costruzioni, cantieristica navale, etc.

Nel nostro paese la siderurgia ha un valore particolare per le nostre caratteristiche strutturali. Siamo un paese piccolo, povero di materie prime. Ciò rappresenta una “condanna” ad avere un manifatturiero con grande capacità di export per tenere la bilancia commerciale in positivo e poter pagare le importazioni di ciò di cui siamo sprovvisti. Siamo un paese che morfologicamente deve puntare al mondo aperto.

La siderurgia è il settore primario del manifatturiero e perdere, dopo l’alluminio, anche la produzione di acciaio significa perdere sovranità industriale.

Per questo la siderugia italiana ha una storia importante ma che riflette tutte le contraddizioni del nostro paese.

E’ la storia che corre parallela al Gruppo Ilva, il cui nome deriva dal nome latino dell’Isola d’Elba. E’ la tipica storia italiana in cui si parte da una grande intuizione ma che presto, per l’incapacità di sommare le energie e conciliare le esigenze, si trasformerà in un disastro.

Il 9 luglio 1960 fu posata la prima pietra del più grande centro siderurgico italiano ed europeo. A pochi passi dalle estreme propaggini della città di Taranto, estirpando decine di migliaia di alberi d’ulivo. Molti anni dopo per lo stabilimento a pochi chilometri di Leonardo a Grottaglie, che costruisce le fusoliere del Boeing 787, gli ulivi vennero espiantati e ri-piantati vicino alla città. Il primo altoforno entrò in funzione il 21 ottobre 1964, il secondo il 29 gennaio 1965. Dopo una fase di rodaggio, il 10 aprile 1965 il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat inaugurò ufficialmente il quarto centro siderurgico del Paese (quarto in ordine di tempo, dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli), il più grande di tutti.



Quando la politica pensava al futuro Nel 1948 il governo italiano aveva approvato il  Piano Sinigaglia, dal nome dall’ingegnere ed imprenditore, presidente delle acciaierie Ilva all’inizio degli anni Trenta, perseguitato dal regime fascista in quanto ebreo, poi presidente di Finsider, il ramo dell’Iri che comprendeva le aziende siderurgiche in mano pubblica, tra cui l’Ilva, la Terni, la Dalmine e la Siac (Società Italiana Acciaierie di Cornigliano). Il Piano prevedeva un forte aumento della capacità produttiva della siderurgia nazionale, attraverso la ricostruzione dello stabilimento di  Genova-Cornigliano  e l’integrazione verticale delle lavorazioni negli stabilimenti di  Piombino  e  Bagnoli. Erano anni diversi con persone come l’ingegnere capaci di non relegare le politiche al “ricatto di breve termine” della politica attuale, o al “quotidiano” della recentissima. In un articolo del 1948 intitolato “ The future of Italian iron and steel industry”,  Sinigaglia aveva spiegato la sua strategia: l’Italia era un paese sovrappopolato le cui risorse non consentivano ai suoi abitanti di raggiungere standard di vita paragonabili a quelli dei paesi europei più ricchi. L’emigrazione non poteva rappresentare la soluzione al problema ed era, quindi, necessario analizzare tutte le risorse disponibili con grande attenzione. Fra esse, l’agricoltura che, però, secondo Sinigaglia, date le caratteristiche geografiche dell’Italia, non era in grado di migliorare la situazione precaria del paese. La speranza poteva essere, invece, riposta, nell’industria, nonostante la scarsità di materie prime e combustibile, e, in particolare, nella siderurgia che avrebbe assicurato almeno la produzione di acciaio a prezzi moderati, necessaria a fornire semilavorati agli altri settori industriali.
Si parte con Bagnoli nel 1904 Negli anni ’60, si decise di costruire un altro stabilimento siderurgico nel sud, dopo quello di Bagnoli nel 1904, la scelta ricadde su Taranto per diverse considerazioni di natura tecnica, logistica – fra le altre le caratteristiche del Golfo tarantino che consentivano di costruire un Porto capace di accogliere navi per il trasporto delle materie prime e la spedizione dei prodotti – e, naturalmente, politica. Ma soprattutto c’era già una città militar-industriale di 170 mila abitanti sorta intorno alla base della Marina e all’Arsenale, e attraversata da una violenta crisi occupazionale. “Taranto non deve morire”, uno slogan usato recentemente, nasce, in realtà in quegli anni, pre Ilva: il disfacimento della produzione bellica e il ridimensionamento dei cantieri navali avevano già segnato la città moderna sorta pochi decenni prima accanto alla città vecchia in cui per secoli la vita era stata racchiusa, proprio come in un’ostrica, in un dedalo di vicoli e in un gomitolo di case accatastate le une sulle altre. Nel 1971  Antonio Cederna scriveva sul  Corriere della Sera  che quello tarantino gli appariva a tutti gli effetti “un processo barbarico d’industrializzazione. Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi 2000 miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sotto vento”. Ciononostante, alla metà degli anni Settanta, si procedette al raddoppio del centro siderurgico che portò gli assunti diretti al numero esorbitante di oltre ventimila dipendenti, e quelli dell’indotto a oltre quindicimila. Il raddoppio estese ulteriormente la superficie della fabbrica. Le basi del vero gigantismo industriale, che oggi rendono di fatto complicatissima (ma non impossibile) qualsiasi via d’uscita del “caso-Taranto”, sono state gettate allora. Negli anni Settanta, i sindaci dei comuni limitrofi modificano i piani regolatori per costruire sempre più vicino alla fabbrica. Anche lo stabilimento di Gand (Belgio), preso a riferimento da Arcelor Mittal come modello e già contestato da Peacelink per emissioni di CO2 e polveri sottili, è nato come quello tarantino, nel 1962, a una decina di chilometri dal centro abitato. La differenza è che da allora hanno evitato di costruirvi attorno. Qui no, cresce la fabbrica e si cambiano i piani regolatori per poter costruire case sempre più a ridosso, proprio nel 1971 in cui iniziano le prime manifestazioni in difesa dell’ambiente. Il reddito medio della provincia di Taranto era migliore delle altre province del mezzogiorno, ciò non può giustificare gli scarsi investimenti in interventi ambientali. Chi parla con nostalgia dell’Ilva di Stato ha scarsa memoria: L’impresa pubblica portò inquinamento, benessere economico ma anche tanta cultura della commistione e dell’assistenza anche nell’indotto.


Dopo il Britannia si privatizza la Siderurgia, arrivano i Riva Il 2 giugno 1992 di fronte alle coste italiane si discute di privatizzazioni tra alcuni banchieri inglesi e gran parte dell’establishment italiano. Da allora partì un grande processo di privatizzazioni che investì anche la siderurgia pochi anni dopo. E’ la storia del’Ilva privata, a partire dal 1995, quando arrivarono i Riva che si aggiudicarono quella che nel frattempo — dopo la messa in liquidazione di Italsider nel 1988 — era appunto diventata l’Ilva. Con un’offerta di 1.649 miliardi di lire (e 1.500 miliardi di debiti, a fronte di un fatturato di 9 mila miliardi e 11.800 dipendenti) superarono i rivali del gruppo Lucchini. Con un “padrone” privato, si pensò all’epoca, sarà più facile per la magistratura controllare che la produzione dell’acciaio venga fatta secondo le leggi. Non si sa, neanche con il senno di poi, se l’Ilva dei Riva abbia inquinato più o meno dell’Italsider di Stato, ma si sa con certezza che ai tempi dei Riva le leggi per la tutela ambientale erano sicuramente un po’ più chiare e prescrittive. Con la fine delle partecipazioni statali e l’avvio dei processi di privatizzazione, alla metà degli anni Novanta, lo stabilimento venne rilevato dal Gruppo Riva che, da subito, adottò politiche di gestione della forza lavoro e delle relazioni sindacali molto dure. Si dotarono anche della loro versione dei “reparti confino” presi dall’esperienza Fiat pre-Marchionne, degli anni ’50 e ’80, con la famigerata palazzina Laf. Fabio Riva nella primavera precedente il sequestro si lamentò con il mio sindacato locale perché usavo il termine eco-sostenibilità sui giornali. Nella cultura gestionale dei Riva si pensava che anche il sindacato dovesse chiedere il permesso per dire la propria. Ciò fa capire in che mondo vivessero. Un’attività nata come semplice commercio di rottami ferrosi e, solo dopo gli anni ’60 approdata alla Siderurgia.
La storia dei Riva in Ilva dura 17 anni: il 26 luglio del 2012, infatti, l’acciaieria viene messa sotto sequestro (senza facoltà d’uso) a seguito di un’inchiesta della magistratura di Taranto. Le accuse per i vertici aziendali, a vario titolo, sono di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. Nel 2013 arriva il commissariamento, nel 2015 l’Amministrazione straordinaria, nel 2016 il decreto per la vendita, nel 2017 l’aggiudicazione alla cordata Am Investco (in concorrenza con AcciaItalia), guidata da ArcelorMittal, gruppo nato nel 2006 dalla fusione tra la francese Arcelor e l’indiana Mittal Steel Company, con quartier generale in Lussemburgo. E l’Ilva torna privata.


In ogni caso, sia pubblica che privata, un colosso del genere, generalmente è generativo di nuovo tessuto industriale e di ceto imprenditoriale autoctono. Nell’esperienza ionica, ciò non è accaduto, peraltro i Riva si liberarono di quello che oggi è un vero gioiello, il CSM, il centro di sviluppo materiali, oggi di proprietà Rina.

Nel 2009 una legge regionale del governatore pugliese Nichi Vendola aveva fissato dei limiti più stringenti sulle emissioni di diossina. Purtroppo l’impianto era carente della sensoristica per il monitoraggio e fu necessario per dare operatività a quelle misure un accordo che firmammo tutti con Gianni Letta a Palazzo Chigi. Mentre Cremaschi (Fiom) e Camusso (per la Cgil) firmarono ma aggiunsero “per presa d’atto”. Preferisco non commentare. Vendola fu demolito pubblicamente per l’imbarazzo dovuto alle intercettazioni telefoniche con i Riva, ma in realtà fu senza dubbio più concreto dell’attuale gestione della Regione Puglia. Non solo: il 26 luglio 2012 venne disposto il sequestro di tutta l’area a caldo di Ilva (cuore dello stabilimento a ciclo integrale), cui seguirono provvedimenti giudiziari nei confronti della famiglia Riva e di alcuni dirigenti, e arresti. Il reato imputato è “disastro ambientale”. La situazione era nell’aria dalla primavera. L’indagine andava avanti, i Riva non dimostravano nessuna capacità di ammettere responsabilità, riconoscere errori di valutazione. Si sentivano “padroni”, ma senza la crescita culturale che sarebbe stata necessaria dopo il salto di qualità da trasformatori del ciclo del rottame a proprietari del più grande centro siderurgico d’Europa, e senza rispetto per l’ambiente e la salute di operai e cittadini.
   L’ambientalismo cieco e il sequestro 26 luglio 2012. Quella mattina stavo andando a Torino in Alenia Aermacchi per delle assemblee ma, apprese le notizie, corsi a Taranto. Quel giorno fu drammatico: i lavoratori invasero la città e bloccarono le uniche due strade di accesso, la SS 100 e la SS 106. Rabbia e disorientamento erano fortissimi. Dallo stabilimento, fin oltre il Ponte girevole, vi erano blocchi ovunque. Risalendo l’Appia con i ragazzi della Fim, ci avvicinammo alla città e, superato il Ponte di pietra, il sostegno forte al Sindacato mutò in una crescente ostilità nei nostri confronti. Le manifestazioni erano in mano alle associazioni ambientaliste e di qualche lavoratore. Il loro posizionamento era netto: “La procura fa bene a chiudere la fabbrica, perché Taranto deve avere un altro futuro”. Rocco Palombella, il segretario nazionale della Uilm, era di casa, essendo originario di Taranto. Maurizio Landini, della Fiom, arrivò durante la notte. Organizzammo un’assemblea per la mattina seguente, alla portineria D dello Stabilimento. Avevamo 11 mila persone davanti: non fu un’assemblea facile, in particolare per la Uilm che è l’organizzazione di maggioranza. Ma fu importante. Solo uno sprovveduto può sottovalutare la reazione di un oceano di lavoratori ai quali si vuol far pagare tutto il conto due volte, in termini ambientali e poi anche occupazionali. Il sindacato serve pure a questo, a dare forma e contenuto alla rabbia e alla disperazione. Sono momenti in cui scappano tutti e con le persone restano solo i sindacalisti. Per dare contenuto e forma alla rabbia e alla disperazione bisogna esserci, rischiare, mostrare la faccia. La Fim e la Uilm presidiarono tutte le assemblee lungo i blocchi stradali, mentre il gruppo dirigente della Fiom rimase più indietro. Iniziò a serpeggiare l’idea che chi scioperava lo facesse “contro la magistratura”. Ricordo che addirittura le bottiglie d’acqua distribuite dalla mensa per ristorare i manifestanti dal feroce caldo della Via Appia vennero considerate nella trasmissione Rai di Gad Lerner un “fiancheggiamento da parte dei Riva”. C’era molta rabbia: l’azienda provava ad utilizzare i lavoratori come scudo contro la magistratura, mentre la magistratura considerava la produzione un “evento criminoso” e, pertanto, da impedire. Girò la voce allarmante che il tribunale avrebbe chiuso per ferie in agosto e avrebbe riaperto a settembre. In questo clima velenoso, il sindacato organizzò la manifestazione cittadina del 2 agosto, famosa perché durante l’intervento del segretario della Fiom, il “Comitato dei lavoratori e cittadini liberi e pensanti” fece irruzione sul palco con Apecar e fumogeni. Lanciarono le aste delle bandiere contro il palco e se ne impadronirono. Insieme ai delegati Fim dell’Ilva lasciammo per ultimi il palco perchè sapevo, che avremmo dovuto abbandonare la piazza per molti mesi, e così fu. Ancora oggi continuo a non capire perché chiedere a gran voce che la “giustizia” non facesse pagare il conto due volte ai lavoratori fosse “un atto ostile alla procura”. E’ certamente giusto che la magistratura intervenga, ma è anche necessario comprendere gli effetti del proprio intervento su quanti non hanno alcuna responsabilità delle decisioni assunte. Non può essere colpa dei lavoratori se a Taranto non si è riusciti a conciliare ambiente e sviluppo, come invece accade altrove.    Una politica litigiosa delega la politica industriale ai magistrati A Taranto hanno fatto fortuna politici di ogni risma nella contrapposizione tra industrialismo ottocentesco e ambientalismo cieco  Prima di tutto bisogna dirlo con chiarezza, la magistratura ha molti meriti in questa vicenda che si trascinava da troppo tempo, vittima di tatticismi e ritardi imperdonabili. L’iniziativa di rottura è meritoria. Ma in un paese che ha fatto poco e male politica industriale, di certo questa non può essere abdicata alla magistratura. Processi lumaca, dibattimento avviato cinque anni dopo rischiano di avere poco effetto sulla ricerca e la sanzione dei responsabili, mentre una portata più ampia sul resto. Se ci sono elementi è giusto sequestrare fabbriche e fare arresti, non so se sia utile sequestrare e far deperire nel piazzale 1 milione 700.000 euro di prodotti finiti e pronti da spedire, ma di sicuro non lo è avviare il dibattimento 5 anni dopo. Tra i 53 indagati ci fu il bravissimo prof Assennato, quello che fornì i dati per aprire l’indagine e che smontò immediatamente le intercettazioni perché erronamente trascritte (come ci ricorda proprio su questo giornale Annarita Di Giorgio). E consentitemi, trovo un po’ irrituale che il Procuratore capo Sebastio, successivamente, in pensione, si sia candidato a sindaco con esito elettorale disastroso ma proprio perché l’Italia è un paese per giovani, fu indicato per Presidenza della Ladisa società leader delle mense pubbliche pugliesi.
Il mercato dell’acciaio non dorme mai Lo stallo in Ilva ha determinato la perdita immediata di clienti e una sofferenza imprevedibile all’azienda, che ha completamente perso la reputazione (gli americani sono stati i primi ad andarsene, e poi perfino Fiat, Fincantieri, e poi anche la capacità operativa (la commessa per i tubi del gasdotto Tap l’hanno vinta società estere) e pure le competenze (Ilva aveva ingegneri giovani e preparati che sono andati altrove, alcuni all’estero non hanno certo fatto fatica a ricollocarsi, ma noi li abbiamo persi). Questo è l’effetto dell’inchiesta costruita sull’acqua: in tutti i paesi del mondo di fronte a comportamenti illegali del management o dei proprietari, si separano le sorti dell’azienda da quelli della direzione aziendale. A Taranto hanno fatto fortuna il politico che ha appoggiato l’industrialismo ottocentesco, quello che considera inevitabile produrre e inquinare, e il politico ambientalista che considera la produzione, di per sé, un crimine.
Taranto capitale delle contraddizioni Bisognerebbe organizzare dei tour a Linz, in Austria, dove i cittadini non si sono fatti fregare da demagoghi urloni e neanche da affaristi: hanno invece votato politici che hanno tenuto insieme ambiente e crescita e l’impianto, a ridosso della città, non inquina. In Italia, invece, si è configurato un vero e proprio conflitto tra i poteri dello stato con nessuno capace o abbastanza autorevole per richiamare questi poteri a obiettivi comuni. Sono stato a lungo a Taranto, un anno prima del sequestro dell’Ilva, come commissario della struttura della Fim provinciale e ho notato una diffusa e ossessiva capacità di schierarsi contro, a prescindere. La prima manifestazione contro l’inquinamento Ilva risale al 1971 ma, da allora, nel corso di questi anni, mentre gli attori dello scontro hanno avuto grande visibilità, minore fortuna hanno avuto ambiente e occupazione. Taranto era ed è la città delle contraddizioni: il complesso dell’industria pesante e inquinante è stato liberato con la vicenda Ilva dalle responsabilità che invece hanno sulla compromissione dell’ambiente. Contraddizioni che portarono a un referendum per la chiusura dello stabilimento il 14 aprile del 2013, a cui partecipò meno del 20 per cento circa dei tarantini (non fu raggiunto il quorum). Nel quartiere Tamburi, quello più vicino allo stabilimento, l’affluenza fu più bassa che nel resto della città. La stessa sorte in tutte le elezioni amministrative, comprese quelle del giugno 2017 che non hanno visto la vittoria dei candidati “benaltristi”. Alla fine di tutto, dal 2012, la questione ambientale non è sensibilmente migliorata, la fabbrica è ancora sotto sequestro, con facoltà d’uso, il dibattimento processuale è appena partito questa primavera. Nessuna certezza, mentre le polarizzazioni si acuiscono. Va detto che incertezze e sbagli ci furono in entrambi gli schieramenti politici, come il tentativo in cui al termine del 2014 l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, mal consigliato da Andrea Guerra, voleva nazionalizzare (in barba a qualsiasi norma comunitaria) temporaneamente l’Ilva per bonificarla e poi rimetterla sul mercato magari proprio a fondi che si occupano di ristrutturazioni aziendali. Il governatore della Puglia, Michele Emiliano, e il fronte imprenditoriale era furbescamente favorevole – quote di acciaio da spartirsi – e nel fronte sindacale solo noi della Fim-Cisl ci schierammo contro un impossibile processo di nazionalizzazione. Tanti passi falsi ed errori. Tempo perso, inutilmente, defenestrando il commissario Enrico Bondi, che resta la figura più seria e autorevole che si è occupata della gestione di questa fase difficilissima. Insomma, tanto per ricordare che è da sette anni che era aperta la questione dell’Ilva e tutti continuavano a giocare.    Acciaio e ambiente litigano solo qui Dicevamo già che In un paese povero di materie prime, la produzione primaria di metalli è una pre-condizione per non perdere ulteriori quote di sovranità economica e industriale. La gran parte delle multinazionali a cui abbiamo venduto la siderurgia italiana negli anni Novanta non ha avuto scrupoli a disfarsi di imprese e lavoratori all’arrivo della crisi. Dalla chiusura dello stabilimento di Portovesme di Alcoa, avviata anch’essa con una e-mail spedita da Pittsburgh, questo paese non produce più alluminio; ThyssenKrupp con Ast a Terni, dalla crisi Lucchini alla vicenda Ilva si è ridotta pesantemente la produzione di acciaio da ciclo integrale. La questione della sovraccapacità produttiva mondiale è stata gestita senza scelte strategiche, guidate dalla bussola mal tarata dell’incompetenza. Anche la politica si è adattata a due falsi miti: si può comprare tutto ovunque; l’Ebitda in rapporto al fatturato deve essere attorno al 12. Certo, in Europa i valori sono lontanissimi dall’obiettivo, per i maggiori costi di energia, infrastrutture, burocrazia.
Cambia il mondo dell’acciaio Prima del 2000 la Cina era importatore netto di acciaio e alluminio, i nostri concorrenti erano, Giappone, Corea e Sud America, oggi nelle peime 25 aziende al mondo 14 sono asiatiche. La reazione dei paesi industrializzati è stata miope allora e, a causa di quella miopia, ora sono costretti ad inseguire. In Italia va ancora peggio: non si può essere “mercatisti” quando si parla di industria e rientrare nel protezionismo statalista quando si parla di mercato dell’energia, perché il riflesso di questo atteggiamento è proprio una delle cause dei più alti costi energetici. Inoltre, la siderurgia non fa prodotti “globali”, ma in buona parte regionali. Tali prodotti per i settori della domanda (costruzioni, automotive, elettrodomestici, aerospazio, ecc.) rendono la produzione all’estero non conveniente per i tempi e i costi di trasporto. Non a caso tra le prime venticinque aziende siderurgiche nel mondo, oggi, ben quattordici sono asiatiche. Per questo su siderurgia e alluminio abbiamo sostenuto, come Fim, il riavvio del tavolo di settore sui nodi cruciali: costo energia, certificazione prodotti, consorzi materie prime, infrastrutture e innovazione, anti-dumping europeo verso i Brics.    L’importanza dell’acciaio a cliclo integrale Quando si produce acciaio, l’alternativa è tra il ciclo integrale e il forno ad arco elettrico. Senza l’uso di tecnologie adeguate, il primo ha un costo insostenibile in termini ambientali. L’Italia presentava, già prima dell’esplosione della vicenda Ilva uno squilibrio rispetto all’Europa, dove la maggioranza dell’acciaio mediamente è prodotta per il 75 per cento da ciclo integrale e il 25 per cento da forno elettrico. In Italia oggi siamo al dato opposto. E la qualità di acciaio necessaria ad alcuni impieghi, come l’infrastruttura ferroviaria, l’automotive, ecc., può derivare solo dal ciclo integrale. Dopo la chiusura dell’altoforno di Piombino, in Italia si produce acciaio da ciclo integrale solo a Taranto.    Le cokerie alimentano altiforni che permettono di produrre l’acciaio. La materia utilizzata è, appunto, il coke, assieme a strati di minerale e calcare. I vantaggi degli altiforni sono di due tipi: la qualità è considerata superiore, soprattutto per i prodotti piani, rispetto al forno ad arco elettrico; i costi della materia prima sono inferiori, almeno in un contesto come quello italiano. Questo sistema è, però, sicuramente più inquinante, per l’emissione di gas nocivi e per le polveri dei depositi di coke. L’incidenza di tumori e leucemie nel territorio di Taranto è un esempio tragico ed evidente dei rischi per l’ambiente e per la salute che può provocare un impianto di questo tipo. Tutto ciò, ovviamente, se si risparmia e non si utilizzano le migliori tecnologie oggi disponibili.    Il forno ad arco elettrico viene usato per produrre tutti gli acciai speciali e parte di quelli di massa. Il grande vantaggio è l’impatto ambientale relativamente ridotto ma con un notevole fabbisogno di energia. Lo svantaggio è l’applicazione limitata per realizzare acciaio di massa, come quello che si produce all’Ilva di Taranto o quello che si produceva a Piombino e a Trieste. Questo tipo di forno si alimenta tradizionalmente con il rottame. Da qualche anno si è diffuso anche l’uso, per l’alimentazione del forno, del preridotto. La quota prodotta tramite forno elettrico sta aumentando e la tendenza è di una crescita ulteriore da qui al 2030. La produzione con questa tecnologia è assolutamente maggioritaria in India, Africa, medio oriente e Americhe, mentre in Cina la produzione di acciaio da forni elettrici dovrebbe raddoppiare entro il 2030, passando dal 10 al 20 per cento del totale. Solo in Italia, tuttavia, la produzione da ciclo integrale è considerata inevitabilmente inquinante. Basta seguire l’esempio della Voestalpine a Linz in Austria e di moltissime aziende anche in Corea, Giappone e nella stessa India. Certo, senza investimenti nelle nuove tecnologie, come il Korex, il Finex o il preridotto, che la Fim sollecitava da tempo, l’inquinamento generato è scontato.    Continuo a non capire perché chiedere che la “giustizia” non facesse pagare il conto ai lavoratori fosse “un atto ostile alla procura”  Anche grazie all’azione della Fim dal 2014 si è parlato molto del preridotto come possibile soluzione per i problemi ambientali legati all’acciaio. Il preridotto è un materiale composto per almeno l’85 per cento di ferro e trattato con un procedimento chimico. Può essere usato come sostituto del coke (o meglio, per diminuirne il consumo) nei processi a ciclo integrale. Il grande vantaggio è che gli impianti di lavorazione funzionano a gas e non a coke. Per ogni tonnellata di acciaio prodotta a partire dal minerale, le emissioni di anidride carbonica sono inferiori almeno del 65 per cento e vengono eliminate del tutto sostanze cancerogene come gli idrocarburi policiclici aromatici e il benzo(a)pirene. Un altro vantaggio è che il processo non rende necessari i parchi minerari di coke all’aria aperta, come quelli tristemente noti di Taranto. Finora si è, però, utilizzato soprattutto nei forni elettrici ad arco in sostituzione del rottame, rispetto al quale non presenta elementi chimici inquinanti (come rame, stagno, ecc.). Il nodo da sciogliere di questa tecnologia è che per funzionare ha bisogno di grandi quantità di gas a prezzi molto convenienti. Non è un problema per paesi come la Russia o gli Stati Uniti, spinti dallo shale gas, ma è un grande problema per l’Europa e per l’Italia, che ha costi del gas superiori del 30-40 per cento rispetto alla media del continente. Se negli Stati Uniti il prezzo per metro cubo di gas è di 10-12 centesimi, in Italia la media è di 35-40 centesimi.    La Fim sostenne con forza il piano industriale dell’allora commissario Bondi e del processo per l’area a caldo di Taranto prima della sostituzione con Piero Gnudi. Il piano fu giudicato costoso, ma credo che i conti si faranno alla fine. Chiedere – come fa Emiliano – la decarbonizzazione, che prevede l’utilizzo del gas con una mano e bloccare la Tap con l’altra, è tipico dei califfati peronisti che tengono in ostaggio molti partiti nel mezzogiorno.
I costi dei 2.200 giorni senza padrone Ma quanto sono costati gli oltre 2.200 giorni dell’Ilva senza padrone in cui si sono susseguiti 5 governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte), i diversi commissari (poiché l’ultimo bilancio di Ilva approvato dagli organi sociali è quello del 2011, gestione Riva, il calcolo può essere soltanto approssimativo. Nel 2015 l’Ilva ha perso in media 50 milioni al mese (quindi 600 milioni nell’anno), 25 nel 2016 (300 milioni), 30 nel 2017 (360) e 25 nei primi otto mesi del 2018 (200 milioni). In pratica dal 21 gennaio 2015, inizio dell’amministrazione straordinaria, a oggi, l’Ilva ha perso 1,46 miliardi di euro. Dall’assegnazione ad Am Investco (5 giugno 2017) all’accordo con i sindacati (6 settembre 2018) si sono persi circa 380 milioni. Se si considera che inizialmente la gara si sarebbe dovuta chiudere a giugno 2016, nel conto dei due anni di ritardo vanno aggiunti altri 330 milioni, che portano il totale a circa 700 milioni. Per gli anni 2012/2014, si può far riferimento ai numeri emersi dalla data room a cui ebbero accesso le aziende che presentarono la prima manifestazione d’interesse: emergono perdite per 2,1 miliardi. Complessivamente sono quindi 3,6 miliardi le perdite del dopo Riva, quasi quanto i 4 miliardi offerti da ArcelorMittal per rilevare l’Ilva.
   Chiudi l’Ilva, apri l’Ilva Soltanto in Italia la produzione di acciaio da ciclo integrale, come quella di Taranto, è considerata inevitabilmente inquinante Prima delle elezioni, anche il Movimento 5 stelle aveva promesso di chiudere l’Ilva e bloccare la Tap. Una piattaforma molto simile a quella del governatore della Puglia in quota Pd. Celebre il comizio di Alessandro Di Battista: “Se andiamo al potere la Tap la blocchiamo in due settimane”. Poi ci si chiede perché le opere pubbliche costano di più in Italia, e se i ricorsi al contenzioso (Tar e similari) o alle manifestazioni, che rallentano ma mai impediscono la costruzione dell’opera, non vadano in effetti a vantaggio dei concessionari o di chi vince gli appalti. I costi diretti e le penali lievitano e sono, come sempre, a carico di noi contribuenti. E questo vale anche per Ilva.
Il parallelo impossibile con la Ruhr Analogamente, l’idea, promossa da Grillo, che per il risanamento di Taranto possa prendersi ad esempio quanto fatto nella Ruhr è fuorviante. La Germania non ha dismesso buona parte dell’industria estrattiva, ma ha investito in maniera massiccia nell’industria siderurgica, spina dorsale del sistema industriale europeo: il 39,7 per cento della produzione di acciaio grezzo arriva dalla Germania – primo produttore d’acciaio, con grande utilizzo del ciclo integrale, lo stesso di Taranto – a fronte di un 20,5 per cento prodotto dall’Italia. Inoltre, il Parco attorno al fiume Emscher della Ruhr ha dimensioni notevolmente ridotte rispetto al sito siderurgico di Taranto, e il progetto di bonifica e risanamento ha coinvolto un’area molto ampia, dove sono nati servizi e nuova occupazione, grazie anche alla prossimità con zone altamente industrializzate. La riconversione ha funzionato perché ha coinvolto anche le aree circostanti ad altissima industrializzazione, per cui nel parco e in altre aree della Ruhr sono progressivamente nati servizi offerti alle regioni limitrofe, assai industrializzate e ricchissime. Infine, mentre si chiudeva la Ruhr i tedeschi intensificavano la produzione siderurgica a Duisburg, ampliando l’indotto e dando lavoro ai servizi nati nel parco stesso e nel bacino della Ruhr. Circostanze assolutamente lontane dalla realtà italiana e tarantina. C’è da dire, poi, che i posti di lavoro perduti dopo la chiusura di miniere e fabbriche sono stati recuperati dopo 50 anni.     Da Guidi a Calenda a… Di Maio La fase di cessione si apre al Mise con Federica Guidi, poi con Calenda che arriva ad un passo dall’intesa e si riapre dopo il 4 marzo 2018 con il Ministro Di Maio che per molti mesi prende tempo. Nella conferenza stampa del 23 agosto, all’indomani del parere dell’Avvocatura di Stato, il ministro dello Sviluppo Economico ha dichiarato per ben cinque volte che “per lui e il ministero la gara è illegittima” e che vi è stato “eccesso di potere”. Ma che la legge impedisce sia di pubblicare il parere dell’Avvocatura (che avrebbe richiesto di tenere riservato il documento), sia di annullare la gara. In realtà, anche nel parere che Di Maio stesso aveva chiesto all’Anac, l’Autorità assegnava al ministero la facoltà di annullare la gara, ed è, pertanto, inevitabile che egli ne assuma tutta la responsabilità. Concentrato sull’imputare errori al governo precedente e, invece, molto magnanimo con Arcelor Mittal, il ministro afferma che il sindacato e il futuro acquirente possono continuare la trattativa. Ma come si può negoziare e cercare un accordo con un’azienda che a suo parere “ha vinto una gara in modo illegittimo”?    La trattativa si interruppe perché sia il sindacato sia AmInvestco, il consorzio con ArcelorMittal che ha vinto la gara, vogliono avere chiare le condizioni di partenza e le intenzioni del governo rispetto alle ipotesi di chiusura, sostenuta più volte dal Movimento 5 stelle. Il 6 agosto – in uno dei soli quattro incontri al Ministero in quattro mesi – abbiamo appreso che le condizioni di partenza erano ancor più arretrate di quelle che abbiamo rifiutato con il governo precedente. Il ministro sa bene che il contratto tra Commissari (che lui ha, peraltro, prorogato) e ArcelorMittal contiene espressamente la previsione che tali condizioni, anche sugli esuberi, possano essere migliorate dall’accordo sindacale. Non ci si occupa dei lavoratori dell’Ilva e della salute dei cittadini di Taranto dando ragione contemporaneamente a chi vuole chiudere lo stabilimento e a chi vuole rilanciarlo. Risorse ancora a carico dei contribuenti e per il cui reperimento sarà necessario l’ennesimo decreto, proprio da parte di Di Maio che ha sempre contestato la numerosità dei precedenti provvedimenti.     Molti hanno chiesto la pubblicazione immediata del parere dell’Avvocatura, e non a fine procedura, dopo i numerosi accessi agli atti avviati, che sarà successivamente pubblicata il 7 settembre. Il precedente Governo lo rese pubblico, ci si sarebbe aspettato lo stesso da un governo che in campagna elettorale faceva proprio della trasparenza la sua bandiera. Non spettava a noi giudicare regolarità della gara ma dopo sedici mesi è il momento di decidere e di porre fine alla confusione alimentata sinora. I lavoratori non attenderanno ancora per molto tempo e la mobilitazione non è più un’ipotesi, ma un’opzione imminente. Chi pensa che il tempo aiuti non ha mai fatto una trattativa, di fatto tutti questi mesi perduti non hanno migliorato le precedenti condizioni negoziali e hanno indebolito il potere contrattuale del sindacato.
Le condizioni dell’accordo Perché ArcelorMittal potesse prendere possesso dell’Ilva, però, si è dovuto attendere settembre 2018. Non è bastata l’offerta vincente, così articolata: 1,8 miliardi il prezzo di acquisto, 2,4 miliardi di investimenti (circa 2,2 miliardi al netto del contributo del gruppo Riva) entro il 2023, di cui 1,25 miliardi per il piano industriale e 1,15 di investimenti ambientali. E un’occupazione per 9.407 unità nel 2018, a fronte dei circa 14 mila addetti del gruppo (con cassa integrazione autorizzata fino a 4.100 dipendenti) del 2017. L’accordo doveva essere accettato dai sindacati. Il ministro Carlo Calenda del governo Gentiloni ci prova fino all’ultimo a chiudere l’intesa migliorativa, ma non riesce a completare l’opera. Il voto del 4 marzo 2018 spazza via il vecchio governo e la palla passa nelle mani del suo successore al ministero dello Sviluppo economico Luigi Di Maio. Che prima prova ad annullare la gara per illegittimità, poi chiude — dopo una trattativa durata tutta l’estate e conclusa il 6 settembre — l’accordo migliorativo. 10.700 lavoratori assunti, 3.100 in cassa integrazione ArcelorMittal si impegna ad assumere 10.700 lavoratori e ad assorbire, dal 2023, i rimanenti 3.100, che nel frattempo restano sotto l’amministrazione straordinaria di Ilva in cassa integrazione, per un costo complessivo che può arrivare a 400 milioni. Molti lavoratori però potrebbero optare subito per l’incentivo all’esodo di 100.000 euro lordi. L’Amministrazione straordinaria invece resterà in vita fino al 2023, con il compito di decontaminare l’area fuori dallo stabilimento, ma per l’opera di bonifica basteranno circa 400 persone.

I soldi nascosti dai Riva tornano a Taranto Rimane il tema da cui tutto è partito: il disastro ambientale. In questi sei anni si è risanato pochissimo perché non c’erano i soldi. Oggi a disposizione ci sono circa 2,2 miliardi. Chi li mette? Per metà la nuova proprietà, per l’altra metà la vecchia proprietà dei Riva. Perché nel 2013, grazie al filone milanese dell’inchiesta, la Guardia di finanza sequestra ai fratelli Adriano ed Emilio Riva circa 1,3 miliardi di euro sottratti alla holding Riva Fire. Portati in Svizzera anziché essere investiti nei filtri, nella copertura dei parchi minerali, nel trattamento delle acque, nella gestione dei fanghi velenosi. Nell’ordinanza di sequestro il gip Fabrizio D’Arcangelo usa parole durissime: i fondi «costituiscono il provento dei delitti di appropriazione indebita continuata e aggravata» da parte degli indagati «ai danni della Fire Finanziara spa (poi Riva Fire) di truffa aggravata, di infedeltà patrimoniale e di false comunicazioni sociali, oltre che di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e di trasferimento fraudolento di valori». I fondi vengono sbloccati definitivamente a dicembre 2016 e in applicazione della legge cosiddetta «Salva Ilva» destinati al risanamento e al rilancio dell’azienda, applicando tutte le prescrizioni del Piano Ambientale.

L’Ilva per l’Italia La verità è che sull’Ilva si scontrano le diverse visioni sull’industria dentro la coalizione di governo. Bisogna augurarsi che non prevalga la linea anti industriale benaltrista, già fortissima in larga parte della sinistra e ora trionfante con il Movimento 5 Stelle. Il nostro paese è in piedi grazie ad un avanzo di bilancia commerciale dovuto a un ottimo surplus delle esportazioni che registriamo in modo sostanziale dal 2016 in poi. Lo scorso anno il 52 per cento delle esportazioni sono metalmeccaniche. Non serve aggiungere altro su ruolo che può avere la domanda di acciaio che, purtroppo, ora stiamo soddisfacendo con le importazioni, in particolare dalla Germania. La confusione di questi anni, aggravata negli ultimi mesi, ci rende sempre più dipendenti dai tedeschi. In termini di sovranità industriale stiamo perdendo terreno.      Non solo, tutti si chiedono perché ArcelorMittal, il più grande produttore di acciaio del mondo, mostri una reazione così composta ad oltre un anno dall’aggiudicazione della gara. La risposta è semplice: perché rinunciare volontariamente se, invece, con l’annullamento della gara l’investitore potrebbe andar via con le tasche piene di penali da incassare (anch’esse, come l’amministrazione straordinaria, a carico dei cittadini).     Il messaggio agli investitori è “andatevene” La vicenda Ilva è come un grande cartello rivolto al mondo intero che dice: “Se dovete investire state alla larga dall’Italia”  Il dato vero è che la vicenda Ilva è un segnale a tutto il mondo. E’ come un grande cartello che dice: “Se dovete investire state alla larga dall’Italia”. Ci vorranno decenni di buone politiche per cancellare questo messaggio devastante. In questo caso possiamo mettere insieme i riferimenti geopolitici di Di Battista. L’Italia di oggi rischia di seguire Pinochet che chiuse l’economia cilena e fece scappare gli investimenti esteri (aveva comunque una maggiore dotazione di materie prime rispetto a noi), esattamente come più di quarant’anni dopo Chavez e Maduro hanno fatto in Venezuela. Politici come Sinigaglia facevano previsioni e intraprendevano politiche di lungo termine con una chiara visione del paese, l’opposto del “ricatto di breve termine” della politica contemporanea, accentuata dall’ultimo governo, che vive di quotidiano, con un orizzonte che riguarda il percorso dei singoli politici e mai oltre la prossima scadenza elettorale. Senza politiche di attrazione che migliorino l’habitat del nostro paese per lavoratori e imprese, le norme anti delocalizzazione, per esempio, rischiano di essere una beffa di fronte al segnale più forte di inaffidabilità complessiva.
Nel 2018 sale la domanda ma Ilva perde comunque    Ma il mondo è altro. Il mondo ha prodotto 8,4 milioni di tonnellate di acciaio in più a luglio 2018  rispetto allo stesso mese del 2017. Lo dice il nuovo report della  World Steel Association  sull’output globale di acciaio, aggiornato al 31 luglio. Nel settimo mese di quest’anno sono stati prodotti  154,57 milioni di tonnellate di acciaio, in aumento del  5,8 per cento  tendenziale.  Una crescita simile si registra anche se si guarda al periodo gennaio-luglio 2018: la produzione annuale al 31 luglio ammonta a  1,03 miliardi di tonnellate di acciaio, il  5 per cento  in più rispetto al medesimo intervallo del 2017. Sempre la World steel association vede la domanda di acciaio mondiale in crescita nel prossimo biennio. Ilva ha una posizione strategica per le aree emergenti del mediterraneo: l’Europa del Sud e il Continente africano. E invece siamo l’unico paese dell’area Ocse che negli ultimi mesi sta rallentando. Attorno a Ilva a Taranto, il Gruppo Marcegaglia in questi ultimi anni ha chiuso, Vestas è ridimensionata, il “benaltro” ha avuto subito il fiato corto.    Ho sempre visto l’ambientalizzazione, la bonifica di tutto il territorio, la realizzazione di una fabbrica ecosostenibile, in parallelo ad un vero lavoro di sorveglianza sanitaria ed epidemiologica di cittadini e lavoratori come una grande sfida. Considero a portata di mano, anzi lo ritengo uno dei ruoli propri di un sindacato moderno, conciliare sviluppo, ambiente e occupazione. Punteremo nelle prossime ore ad un accordo che vada in questo senso, il governo deve sapere che il 100 per cento di consenso su un accordo o qualsiasi scelta non esiste, sarebbe un pezzo di carta che non impegna nessuno, il contrario degli impegni e delle responsabilità che bisogna assumersi tutti per far ripartire il paese.    Forse @VujaBoskov direbbe che “governo che da colpa dei problemi a Agenzia di rating o a Sindacato è come calciatore che gioca male e da colpa a pagelle di Gazzetta”. Vale anche per Ilva, vale per noi e per chiunque è alla ricerca di responsabili sempre lontani da se. Ma ogni volta in Italia siamo alle Olimpiadi dello scaricabarile. Il ministro operò al contempo in due direzioni: da un lato, fa conferenze stampa in cui dice che la gara è illegittima ma non la annulla, poi va alle feste, come domenica, a dire che sta ancora verificando le condizioni per annullare la gara in quanto “illegittima per eccesso di potere”.      Così ha potuto dire agli ambientalisti che non è sua responsabilità se facciamo accordo e al contrario se non lo facciamo. Al contempo potrà dire al resto del governo, al sindacato e a chi vuole Ilva aperta e ambientalizzata che è merito suo se arriviamo ad una intesa. In pratica scarica l’esistenza dell’“interesse pubblico” a chiuderla o a tenerla aperta sulla trattativa sindacale. Nel frattempo il ministro Di Maio sapeva che il 7 settembre deve chiudere la procedura amministrativa da lui aperta per verificare la validità della gara. E lo stesso giorno, rendere pubblico il parere dell’Avvocatura, da lui stesso richiesto.     

Da giugno quattro rapidi incontri sindacali e nell’ultimo miglio fa pressing su di noi per fare in 24 ore quello che lui ha impedito per 4 mesi, indebolendo il potere contrattuale del sindacato. Se serve, pur di fare un buon accordo, asseconderemo finanche la sua ossessione di poter dire di aver fatto meglio del suo predecessore. Non è la prima volta che mi capita. Per fortuna chi conosce bene la posta in gioco di questa vertenza, anche su versanti opposti come noi e Peacelink si rende conto come siamo stati in questi mesi accontentati e beffati entrambi. Sogno una politica in cui, a prescindere dagli schieramenti, chi arriva dopo, ringrazia chi c’era prima e dimostra di aver fatto meglio nei fatti e non nella narrazione mediatica. Sogno una politica che rispetti il sindacato e il suo lavoro difficile di conciliazione di interessi e di mediazione sociale. Sogno una politica che sappia affermare le proprie prerogative sfidando i fischi senza inseguire gli applausi raccontando frottole. Le bugie fanno vincere le elezioni ma distruggono il lavoro di intere generazioni, fanno perdere credibilità al paese, alle istituzioni e alle persone.

Il 6 settembre 2018 firmiamo l’accordo. Il Ministro non firmò e dopo pochi minuti fece un video che è ormai un cult in cui dice: “ho risolto in 3 mesi quello che non hanno fatto in 6 anni”. Otto giorni dopo modificò l’addendum per confermare lo scudo penale anche ai nuovi acquirenti.

Il più grande piano di sostenibilità battuto dalla demagogia

Il 3 settembre 2019 diviene operativa la soppressione dello scudo penale per lavoratori e dirigenti a seguito della conversione in legge del decreto “Salva Imprese”. Il giorno seguente la decisione di AM InvestCo Italy di inviare ai Commissari straordinari di ex Ilva S.p.A. una comunicazione di recesso dal contratto dello stesso per l’affitto e il successivo acquisto condizionato dei rami d’azienda di Ilva S.p.A. e di alcune sue controllate a cui è stata data esecuzione il 31 ottobre 2018 è gravissima. Il 6 ha compiuto il resto avviando l’art.47 utile a “liberarsi” dei 10.700 lavoratori e rimetterli nella gestione dei Commissari.

Significa che entro 25 giorni i lavoratori e gli impianti dell’ex-Ilva torneranno nelle mani della già rovinosa Amministrazione Straordinaria. Un disastro sul piano lavorativo e sociale che impatterà negativamente su oltre 20 mila lavoratori del polo siderurgico più grande d’Europa e sull’economia del Mezzogiorno e dell’intero Paese, mandando all’aria un Piano industriale e ambientale di 3.6 mld che era stato raggiunto con molta fatica il 6 settembre del 2018.

Tra le motivazioni principali che hanno portato Am a questa scelta, ll pasticcio combinato in Senato sul “Salva Imprese” con lo stralcio dell’articolo 14, il cosiddetto “scudo penale”, una norma che in qualsiasi altro Paese non sarebbe stata necessaria ma che in Italia invece è stato necessario inserire per impedire che nell’attuazione del piano i dirigenti, ma anche i lavoratori rischiassero penalmente, quello che è poi accaduto.

Si è fornito con quella scelta un alibi, clamoroso per far andar via l’azienda senza vincoli e penali, e la dipartita di Matthews Jehl e l’arrivo della Morselli lasciavano sperare poco di buono. Dal 2018, poco prima dell’accordo e da luglio 2019 era stata ribadita dall’azienda la necessità dello scudo penale come condizione per acquistare e poi per operare.

Dai lo scudo, togli lo scudo… penale

Il sequestro dello stabilimento avviene, come dicevamo il 26 luglio 2012.

Nel gennaio 2015 l’azienda entra in Amministrazione strordinaria, lo scudo penale viene introdotto su richiesta dei Commissari nel 2015

nasce da una norma del 2015: il decreto legge n. 1. L’azienda era entrata da gennaio in amministrazione straordinaria, si era in piena fase critica perché erano aperte tutte le conseguenze del sequestro giudiziario dell’area a caldo del 2012, e con questa norma si era voluto di fatto assicurare una protezione legale sia ai gestori dell’azienda (i commissari), che ai futuri acquirenti, relativamente all’attuazione del piano ambientale della fabbrica. In quel periodo ne aveva fatto le spese l’ex prefetto di Milano Bruno Ferrante nominato Presidente come figura temporanea di garanzia, raggiunto da un avviso di garanzia. Evitare, cioè, che attuando il piano ambientale, normato da un Dpcm di settembre 2017, i commissari o i futuri acquirenti del siderurgico restassero coinvolti in vicissitudini giudiziarie derivanti dal passato essendo l’inquinamento Ilva un problema di lunga data. Dopo la vittoria della gara per l’acquisizione Arcelor Mittal chiese semplicemente di confermare la norma e ciò avvenne con il consenso del Ministro Di Maio nell’addendum del 14 settembre 2018 che recita:

«Nel caso in cui – si legge nel documento – con sentenza definitiva o con sentenza esecutiva (sebbene non definitiva) non sospesa negli effetti ovvero con decreto del Presidente della Repubblica anch’esso non sospeso negli effetti ovvero con o per effetto di un provvedimento legislativo o amministrativo non derivante da obblighi comunitari, sia disposto l’annullamento integrale del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 adottato ai sensi dell’art. 1, comma 8.1, del D.L. 191/2015, ovvero nel caso in cui ne sia disposto l’annullamento in parte qua tale da rendere impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto (anche in conseguenza dell’impossibilità, a quel momento di adempiere ad una o più prescrizioni da attuare, ovvero della impossibilità di adempiervi nei nuovi termini come risultanti dall’annullamento in parte qua), l’Affittuario ha diritto di recedere dal contratto».

Significa in soldoni: se cambio il quadro giuridico generale, quello in cui si è svolta la gara pubblica internazionale e secondo le normative europee che ha visto ArcelorMittal prevalere su Jindal, Arvedi, Leonardo Del Vecchio e Cassa Depositi e Prestiti, ad esempio lo scudo penale (per reati peraltro compiuti da vecchi proprietari), ciò rappresenta violazione di clausola utile a rescindere il contratto e riconsegnare stabilimento e dipendenti.

Non solo, nell’addendum al contratto siglato il 14 settembre 2018 si legge: «L’affittuario potrà altresì recedere dal contratto qualora un provvedimento legislativo o amministrativo, non derivante da obblighi comunitari, comporti modifiche al Piano Ambientale come approvato con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 che rendano non più realizzabile, sotto il profilo tecnico e/o economico, il Piano Industriale».

Con il decreto-legge “Salva imprese” del Conte1 viene aggiunto all’art.14 un secondo comma per lo scudo penale per ArcelorMittal. Il 5 settembre avviene il cambio di governo con il giuramento del Conte Bis. Dal 16 ottobre prima al Senato e poi alla Camera viene stralciata la seconda parte dell’art.14 e cancellato lo scudo penale dalla nuova maggioranza di M5s, Pd e IV.

L’azienda aveva da sempre confermato, e ribadito a luglio 2019: senza immunità, noi andiamo via da Taranto il 6 settembre.

Come dicevamo non è un fulmine a ciel sereno, dopo le rassicurazioni di Di Maio lo scorso 4 luglio a ArcelorMittal, la stessa lancia un primo segnale rassicurante: prende atto della nuova disposizione e dice che resterà a Taranto. Nel frattempo, approda ad ottobre alla Corte Costituzionale l’impugnazione di costituzionalità fatta proprio sul decreto del 2015 dal gip di Taranto, Benedetto Ruberto. Per il gip, quella norma del 2015 è anticostituzionale. Esaminando il caso, i giudici della Consulta gli rinviano gli atti chiedendogli di rivalutare, alla luce del modificato quadro legislativo, dl Crescita e dl Imprese, se il nodo di costituzionalità sussiste ancora. Il gip si era infatti appellato alla Consulta a febbraio scorso, prima cioè dei due dl.

Il cammino del decreto legge Imprese trova però uno scoglio in Senato, dove approda per il primo esame. Una pattuglia di senatori M5S, tra cui l’ex ministro Barbara Lezzi, sbarra il passo alla reintroduzione dell’immunità, seppure modificata, e ottiene con un emendamento l’abrogazione dell’articolo specifico. Il testo del dl passa così senza immunità penale sia in commissione al Senato, che in aula al Senato e infine alla Camera lo scorso 23 ottobre con decorrenza 3 novembre.

Lo scudo era stato confermato da Di Maio, ma dopo le europee e in attesa delle regionali pugliesi M5s e il Pd pugliese legato ad Emiliano hanno lavorato a pancia a terra per questo risultato, raggiungendolo.

E allora il Pd

Ad onor di cronaca c’è da ricordare che il Pd aveva costruito quel provvedimento confermato dai 5S con Di Maio al Mise e poi cancellato sia da Pd che dal M5S. Schizzofrenia dettate da contese interne ai partiti di Governo. Olimpiadi della demagogia che conferiscono Medaglie d’oro di cui c’è inflazione nella politica italiana.

Un capolavoro d’incompetenza e pavidità politica di cui ne faranno le spese i lavoratori e l’ambiente, che dimostra la totale irresponsabilità in un momento in cui il mercato dell’acciaio è in forte calo in tutta Europa.

La vicenda Arcelor Mittal, è lo specchio di un paese profondamente anti-industriale che avrà per anni ripercussioni sulla percezione che si avrà fuori dall’Italia.

Una vertenza che va ad aggiungersi al processo di desertificazione del Sud a cui la politica, è evidente, non sa dare risposte. La notizia infatti arriva dopo che il Parlamento ha eliminato la protezione legale necessaria alla Società per attuare il suo piano ambientale senza il rischio di responsabilità penale, con effetto dal 3 novembre, fornendo un alibi all’azienda per andare via. Già la scelta di un AD esterno al Gruppo sembrava dettata dal proteggere i propri manager per il dopo 3 novembre e assestarsi su un ripiegamento industriale e occupazionale come prologo al disimpegno totale nel nostro Paese. L’azienda non è priva di responsabilità, la Cassa Integrazione non era necessaria.

Secondo voi chi avrebbe investito 3,6 miliardi di euro per uno stabilimento in cui è ancora sotto sequestro l’area a caldo, in cui la magistratura ha chiesto il fermo dell’Afo2 (altoforno) in una Regione in cui il Governatore è esperto su cosa devono fare gli altri ma smemorato sulle sue responsabilità e che impiega il suo ruolo più nei di ricorsi (ad oggi tutti persi) che chiede la de-carbonizzazione per cui serve tanto gas a basso costo e contemporaneamente blocca la Tap (che servirebbe proprio per avere il gas).

Mercoledi sera Lakshmi Mittal ha ricordato che ci sono 3 problemi che li hanno convinti ad andare via: 1) la rimozione dello scudo penale 2) l’ostilità della magistratura dopo il sequestro dell’altoforno 2 dove perse la vita Alessandro Morricella. Su questo punto Mittal ha ribadito che non si chiede la sola messa in sicurezza ma il totale rifacimento. E siccome l’alto forno più grande d’Europa, il numero 5 è fermo, il 3 è spento da anni, i restanti 1 e 4 hanno tecnologie molto simili al n.2 bisognerebbe spegnere tutto. L’Aia era stata scritta con intelligenza per rifare un altoforno (Afo) alla volta proprio per non bloccare l’impianto. Così lo stop sarebbe totale.

3) Mittal ribadisce che da quando è arrivata Governo, Regione e Comune hanno dimostrato solo ostilità e nessuna collaborazione e pensano se i loro investimenti non sono graditi sia giusto farli altrove.

E’ un peccato perché a Luglio di quest’anno avevamo ottenuto la delibera per l’acquisto dei filtri di tecnologia Meros (in sostituzione dell’attuale Meep) per l’impianto di agglomerazione che consentono di dimezzare le polveri anche del camino E312. Con la copertura dei parchi si è molto avanti. Ricordo quando i Riva dicevano che era impossibile realizzarli. Un vero peccato.

Impatto sull’occupazione

Se si ferma l’area a caldo sono almeno 5.000 esuberi, perché quest’area include dalle materie prime (dallo sbarco) fino agli alti forni, alle acciaierie, alle colate continue, con impatto ovviamente su manutenzione e logistica riferita a tutti questi impianti. Anche se importassimo le bramme(acciaio dopo colaggio solidificato in parallelepipedi prima di essere trasformato in prodotto finito, bisognerebbe verificarne la qualità (al momento quella cinese non lo è) e la compatibilità con la gamma dei prodotti ilva. ArcelorMittal ha sempre sostenuto che servono 1000 lavoratori ogni milione di tonnellate prodotte.

Il break heaven dello stabilimento è attorno agli 8 milioni di tonnellate annue. E’ uno stabilimento che sta in piedi grazie a volumi grandi. Al di sotto lo stabilimento perde. Oggi produce 4,7 milioni di tonnellate e nonostante la riduzione di personale perde ancora 2,5 milioni di euro al giorno. Una little ilva rischia di non essere utile o forse tutt’al più utilizzabile come polo logistico.

La retorica della multinazionale predatoria spesso non è retorica ma realtà. In questa storia la gestione politica è stata molto più predona da lavoratori e contribuenti con le loro tasse. Il costo dei 6 anni dell’amministrazione straordinaria è assai più alto delle risorse per ambientalizzare e riqualificare il sito. Continuo a pensare che sia meglio far fare l’acciaio a chi lo sa fare.

Certo la domanda d’acciaio europea è crollata per la follia del mondo chiuso che si scontra con i dazi e per il calo dell’auto per l’incapacità anche li di gestire la transizione con scelte intelligenti e meno spot.

Ma l’Ilva perdeva in questi anni anche quando l’acciaio tirava e grazie ai sovranisti italiani lo compravamo dalla Germania e dalla Turchia.

Anche l’azienda ha reponsabilità, ci mancherebbe. Ma questo disastro è un capolavoro tutto politico, è il frutto amaro di gruppi dirigenti che hanno paura a dire la verità e scelgono l’imborglio della dmagogia quando dovrebbero semplicemente imparare che il loro è assumersi responsabilità anche impegnative.

Secondo l’ultimo Rapporto Svimez, dal 2000 ad oggi sono 2 milioni i meridionali che hanno abbandonato il loro territorio, la metà dei quali under 34. Nel 2019, inoltre, la crescita dell’occupazione nel primo semestre ha riguardato solo il Centro-Nord con 137mila posti di lavoro in più, ai quali si il Meridione, dove si contano 27mila postiin meno.

Il Sud è ufficialmente in recessione ma mentre nel centro Nord la deindustrializzazione è iniziata, nel Sud siamo alle battute finali. Carenze di infrastrutture, accesso al Credito, burocrazia soffocante, costo dell’energia, scoraggiano gli investimenti e fanno scappare quelli presenti. La Puglia ha il doppio della disoccupazione della media europea.

A luglio all’assemblea generale di Federmeccanica l’Ad Matthews Jehl lo aveva detto dal palco. Lo avevamo ripetuto in coro, il 25 ottobre, durante l’incontro con i Ministri Patuanelli e Provenzano. In nessun paese al mondo si rischia il carcere per attuare un piano ambientale. Abbiamo creduto, ingoiando bocconi amari, di poter realizzare il più grande progetto di sostenibilità d’Europa. Bastava la coerenza e il rigore di dare corso a quello che prevede il piano ambientale e l’AIA.

E invece hanno scelto di dare l’alibi all’azienda per fare le valigie.

Tra 30 giorni senza intervento si torna nelle mani dell’amministrazione straordinaria. Periodo già durato 6 anni e in cui sono aumentati gli incidenti e di sostanziale immobilità sul piano ambientale, di ripiegamento produttivo e cassa integrazione, costato oltre 3 miliardi. Solo il sindacato si è assunto la responsabilità di tener duro e andare avanti per bonificare il sito e far si che non inquini più. E continueremo a farlo, ma serve una convocazione immediata del Consiglio dei Ministri che ripristini lo scudo penale magari di portata generale.

Altrove gli elettori scelgono politici che risolvono i problemi, in Italia ci piacciono troppo gli incompetenti che li esasperano. Ho lottato tutti questi anni accanto ai lavoratori Ilva, ci siamo presi i peggiori attacchi, “assassini” era il più gentile, solo perché pensiamo che il nostro ruolo sia conciliare salute, ambiente e sviluppo come in quasi tutto il mondo.

Verrebbe tanto la voglia di fare un passo indietro e lasciare il campo a quelli che non pagano mai, ai benaltristi e vedere cosa combinano. Ma il costo è troppo elevato, abbiamo lo davanti lo spettro di una Bagnoli2.

Bagnoli2 e la vendetta dei benaltristi

Bagnoli è ancora li da bonificare per 2/3, ma chiusa dall’1988, un deserto di inquinamento, disoccupazione e camorra. Bagnoli affrontò crisi cicliche e ristrutturazioni imponenti nel 1984 con un accordo della Flm ma per chiudere pochi anni dopo. Da allora nonostante le centinaia di miliardi stanziati per le bonifiche i risultati sono stati scarsi e sono addirittura fallite per crac finanziari alcune società messe in piedi per le bonifiche.

E’ la sorte di molti Sin (58 circa), i cosiddetti Siti di interesse nazionale, luoghi deturpati da un industrialismo ottocentesco, terreni ad elevato rischio sanitario. In molti casi l’inquinamento è ancora li, tutto da bonificare. Troppo spesso la logica è stata: chiudiamo la fabbrica poi vedremo. Noi sosteniamo un’idea diversa: non fermare le fabbriche e pretendere che riqualifichino i loro impianti in modo ecosostenibile e avviino subito le bonifiche. La strada italiana invece ha aiutato a non responsabilizzare le imprese inquinanti, chiudere e lasciarci con le loro doti scaricata in terra, acqua e salute dei lavoratori e cittadini. In realtà l’inquinamento riguarda molti più siti: l’Ispra ne ha contati 12.482. Siti potenzialmente contaminati, distribuiti su tutto il Paese, con un record di 3.733 casi in Lombardia. Sulle pm10 è utile verificare i dati della centralina del quartiere Tamburi e confrontarla con quelle di Torino e Milano nel bellissimo rapporto “Mal d’Aria di Legambiente”.

Speriamo che cresca consapevolezza ambientale, industriale e civile e che nessuno dia più fiducia agli imbonitori e ai demagoghi, a chi cerca gli applausi mentre racconta bugie e il paese muore.

Si potevano evitare gli incalcolabili danni alla salute, il collasso ambientale e quello dell’azienda? Senza dubbio e non ho problemi a dire che anche come sindacato industriale abbiamo sottovalutato in passato la questione ambientale. Ma vereresponsabilità, riguardano i vari Ministri dell’Ambiente, della Salute, i Governatori della Regione Puglia, Istituzioni locali, magistrati, che in troppi casi pensano che il loro ruolo ha oscillato tra il credere che basti apporre cartelli di divieto e bloccare tutto o dare mano libera alle imprese.

Proprio in questo periodo in cui mentre il il partito di Di Maio è in caduta libera, la sua cultura anti-industriale sembra aver contagiato tutte le forze politiche.

Ora come la Tav e molte altre partite la soluzione vera di questo disastro è un vero e proprio test di ultima istanza sui gruppi dirigenti italiani: non si può stare nel mezzo, il benaltrismo inconcludente va battuto una volta per tutte. Possiamo ancora realizzare il piano di sostenibilità più importante della storia europea, senza perdere lavoro, uniamo le forze.

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