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Un contratto nazionale vale molto di più di un minimo tabellare stabilito per legge

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Un contratto nazionale vale molto di più di un minimo tabella stabilito per legge

di Roberto Benaglia – segretario generale Fim Cisl – Avvenire 6 luglio 2023

Tra i tanti commenti di questi giorni a fronte della proposta avanzata dalla sinistra sul salario minimo, quello proposto ieri da Tiraboschi e Seghezzi su questo giornale ha il merito di affrontare le questioni centrali che da sempre questa proposta porta con sé.

Se stabilire almeno 9 euro di retribuzione oraria per ogni lavoratore costituisce una soluzione molto forte dal punto di vista mediatico, popolare e politico (essendo di fatto il primo elemento su cui si uniscono le forze di opposizione) chi conosce e ha a cuore il valore delle relazioni industriali in Italia non può che evidenziare la debolezza e pericolosità pratica di quanto viene avanzato.

Lo strumento del salario minimo pare avere il vantaggio di essere semplice e di rispondere al tema della dignità del lavoro povero che chiunque si occupa di lavoro deve avere a cuore. Ma alla prova dei fatti e della realtà delle retribuzioni italiane si rivelerebbe un boomerang pericoloso, incapace di incidere sulle variegate condizioni e forme che oggi il lavoro assume.

Tiraboschi e Seghezzi individuano un fattore centrale. Un salario orario di 9 euro lordi onnicomprensivi di tutti gli istituti differiti (13^, scatti anzianità, ecc.) costituisce oggi un livello ampiamente superato da praticamente tutti iCCNL oggi in vigore. Aggiungo a ciò il fatto che laddove esistessero “contratti pirata” con soglie al di sotto dei 9 euro, chi li stipula si adeguerebbe formalmente alle indicazioni di legge sui minimi e continuerebbe a rendere “competitivi” per le imprese tali contratti indebolendo altre tutele significative e costose (malattia, permessi, maggiorazioni, welfare, ecc.).

Un contratto nazionale vale sempre molto di più di un minimo tabellare. E’ questa la grande ricchezza del sistema contrattuale italiano che anche la recente direttiva europea sul salario minimo ha riconosciuto, disponendo che esso vada fissato per via contrattuale nei paesi come il nostro dove la contrattazione è robusta e diffusa.

Il lavoro povero ha bisogno di urgenti misure articolate che, per essere efficaci, devono essere adatte alle diverse cause che lo producono. Per i tanti lavoratori a part time involontario non serve il salario minimo orario, bensì percorsi di rafforzamento nel mercato del lavoro e, sotto una certa soglia di reddito, sussidi di integrazione allo stesso. Per i troppi lavoratori irregolari, in nero o in grigio, assunti a part time ma sfruttati a tempo pieno serve solo ingaggiare in questo paese una battaglia contro il lavoro sfruttato, non solo intensificando i controlli e le sanzioni, ma facilitando le denunce da parte dei lavoratori. Per chi lavora in una falsa cooperativa come socio lavoratore, a cui il CCNL viene sostituito da un regolamento interno al ribasso, serve una riforma delle norme sulla cooperazione che bandiscano questo sfruttamento legalizzato. Per i nostri figli spesso in tirocinio, che non è un rapporto di lavoro, non serve il salario minimo ma vietare gli stessi per mansioni medio-basse e elevarne il contenuto veramente formativo.

I 5,2 milioni di lavoratori che dichiarano redditi inferiori a 10mila euro annui non sono tutti vittime di cattivi CCNL, bensì fanno parte di quel lavoro stagionale, intermittente e di quel debole lavoro autonomo che, soprattutto nei settori del terziario o in agricoltura, avviene in modo discontinuo. Il loro problema è la continuità lavorativa, non il salario minimo.

Resta il fatto che il sistema contrattuale italiano è di fronte ad una polarizzazione tra industria che rinnova i contratti difendendo i salari senza conflitto, come i metalmeccanici stanno ben dimostrando, e un terziario che vede crescere l’occupazione ma non i redditi né i rinnovi. Un irrobustimento del sistema contrattuale e della capacità di rinnovare tutti i contratti scaduti è urgente e deve essere al centro di riforme contrattuali che, proprio 30 anni dopo l’architettura definita il 23 luglio 93 con la fine della scala mobile, le parti sociali dovrebbero tessere e proporre al governo. In Italia sono i salari medi a soffrire.

Stupisce in questo contesto il “disco verde” che Bonomi ha concesso alla proposta sul salario minimo. Un passo indietro nelle responsabilità generali di Confindustria in discontinuità con il passato e forse con i propri interessi. La stessa dovrebbe ricordarsi che in Italia nessuna legge impone l’adozione di un contratto nazionale da parte di una impresa. E’ la giurisprudenza che finora lo ha sancito. Ma se domani esistesse un salario minimo legale chi vieta ad una azienda qualsiasi di uscire da un buon CCNL per avviare con il salario minimo la contrattazione individuale con i lavoratori?

Il salario minimo, sondaggi alla mano, è un ottimo cavallo di battaglia per la politica di oggi. Ma è questione esplosiva se affrontata con la tanta superficialità che fino ad oggi si vede nel Paese.